Alcuni pensieri di Abbas:

La mia fotografia è una riflessione che prende vita nell’azione e conduce alla meditazione.
La spontaneità – il momento sospeso – interviene durante l’azione, nel mirino. La precede una riflessione sul soggetto. La segue una meditazione sulle finalità, ed è qui, durante questo esaltante e fragile momento, che si sviluppa la vera scrittura fotografica, mentre si mettono le immagini in sequenza. Per questo è necessario lo spirito di uno scrittore. Forse che la fotografia non è “scrivere con la luce”? Con la differenza che, mentre lo scrittore è padrone della sua parola, il fotografo è posseduto dalla sua fotografia, dal limite imposto dal reale, che deve trascendere se non vuole diventarne prigioniero.

Quanto alla fotografia, per me è naturale vedere in bianco e nero. Il mondo può essere colore ma il bianco e nero lo trascende. Quando lavoro spengo l’interruttore, e mi trovo in uno stato di grazia.

Comincio a vedere in bianco e nero. Qualsiasi tono di colore io lo traduco in toni di grigio, nero e bianco. Ti consente di lavorare in un modo diverso.
Quando non devi lavorare con i colori della realtà, lavori davvero con altre cose.

Ero solito descrivermi come un fotogiornalista e ne ero molto orgoglioso. Si trattava di scegliere se pensare a se stessi come fotogiornalista o come artista.
Non era per umiltà che mi chiamavo fotogiornalista, ma per arroganza. Pensavo che il fotogiornalismo fosse superiore. Oggi non mi definisco più fotogiornalista, perché sebbene usi le tecniche di un fotogiornalista e le mie foto vengano pubblicate su giornali e riviste, mi dedico alle cose in profondità e per lunghi periodi di tempo. I miei progetti possono durare cinque anni, o sette come nel caso del progetto sull’Islam. I miei libri sono la mia espressione. Assomiglia più al lavoro di uno scrittore che a quello di un fotogiornalista.