C’è la legge sulla privacy.
Sacrosanta, direi. Per molte ragioni.
Ma eccessiva per molte altre.
Mettete che io giri per la città a documentare la vita quotidiana intorno a me.
Magari ispirato da Robert Frank. O da Cartier-Bresson. O da Lee Friedlander. O chi vi pare.
Mettete che si scatti di istinto, al di fuori di ogni progettualità, in modo distaccato, con l’obiettivo di cogliere l’attimo e non interferire con le scene.
Succede spesso.
Anche di rubare qualche scatto tra la gente ignara.
Posso farlo.
Nessun problema.
Ma se ci sono riconoscibili i volti di persone non posso pubblicare le mie immagini.
Questo è vietato. Ho bisogno della liberatoria firmata. Di ognuno.
O meglio: se io ritraggo il luogo, e le persone vi compaiono incidentalmente, allora forse posso pubblicarle senza liberatoria. Ma sarebbe meglio che la mia foto sia di oggettivo interesse pubblico. Sindacabile.
Non sono certo un giornalista che scatta e pubblica per dovere di cronaca.
Quindi io mi butto in mezzo alla gente, scatto per documentare una scena, e poi dovrei, uno per uno, chiedere loro la liberatoria. Questo prevede la legge.
Le più grandi opere di documentazione sociale sono legate ad iniziative personali di fotografi che giravano liberamente nei luoghi pubblici della loro città. Dai primi del ‘900.
Ed oggi non solo sono dei capolavori delle fotografia, ma sono dei documenti fondamentali per giudicare l’evoluzione dei luoghi e delle persone nei decenni. Vere e proprie opere di reportage.
Oggi questo non è più possibile. Ed è un privilegio di pochi fotografi accreditati.
Nemmeno gli editori hanno il coraggio di affrontare questo muro.
Sono stato contattato perché venissero pubblicate su un periodico alcune mie immagini di street photography.
E l’editore mi ha chiesto la liberatoria di ogni soggetto ritratto.
Impossibile.
Assurda anche la richiesta.
Allora forse l’editore poteva venirmi incontro? Di certo se avesse voluto. Lui ha il potere di muoversi nelle pieghe della norma.
Comunque no. Vuole le liberatorie. Capitolo chiuso. Contatto perso.
A me, questa cosa, nell’era di Facebook, mi sembra eccessiva.
Siamo diventati paranoici e complottisti in maniera selettiva.
Posso buttare in rete tutto ciò che ho di più intimo, ma non voglio essere fotografato per strada.
Figurati se ti firmo la liberatoria.
Ma non dovrebbe essere almeno compito degli editori sponsorizzare certe iniziative di documentazione?
Ma siamo sicuri che non ci stiamo rimettendo tutti?
Rispetto agli anni '70, viviamo in un mondo triste, incattivito, insicuro, arrogante. Tutti si sentono ricchi (e magari sono solo indebitati). L'insicurezza la si sente ad ogni angolo. Ma col dialogo si possono abbattere muri. Cerco sempre di spiegare il mio progetto, e spesso trovo chi lo apprezza. Basta non abbattersi davanti alle risposte degli ignoranti e degli arroganti.
Aggiungo: la legge è in ogni caso troppo restittiva. Bisognerebbe distinguere tra necessità ARTISTICA di documentare dallo scattare foto per denigrare le persone o metterle in cattiva luce. Speriamo in tempi migliori – ma dopo i brutti anni '80, anni di individualismo e di pensiero Tatcheriano (la società non esiste, esiste solo l'individuo) (sic!) la gente si è chiusa a riccio, diventando sempre più sola e paranoica
Infine mi domando: se guardiamo la filosofia del diritto (una legge deve rispettare tre capisaldi: deve essere applicabile, dev'essere possibile farla rispettare, deve essere in accordo con il senso comune), e dall'altra parte guardiamo sia l'immenso universo delle immagini presenti su flickr o su altri social network, la legge è ancora attuale o necessita di opportune modifiche? Sinceramente io mi batto democraticamente – rispettandola ma esprimendo il mio parere – affinchè un giorno possa essere cambiata.
infine, le leggi attuali sulla privacy sono un affronto alla storia della fotografia, dell'arte e della cultura di documentare la storia delle nostre città