Dopo questa triste scoperta in rete, cerco di mettere i (miei) puntini sulle “i”.

Distinti giapponesiQuanti di voi fotografi di strada vanno in strada a rubare scatti?

Credo tutti.
La paura di confontarsi con la gente, o anche la paura di alterare una scena, fanno si che spesso si scatti di nascosto. O magari con la camera appesa al collo, senza inquadrare.
Non voglio discutere se sia un atteggiamento giusto o sbagliato: diamo però per scontato che la “candid camera” è uno strumento standard in dotazione allo streetpher (per candid camera si intende genericamente una forma di registrazione effettuata con una macchina nascosta).
Le immagini rubate possono essere considerate lo specchio della realtà?
Come si pongono rispetto alle immagini costruite a tavolino, pianificate con attenzione?
La fotografia è uno strumento molto efficace se si vuole mentire: una frazione di secondo, congelata per l’eternità, può voler raccontare quella frazione di secondo oppure un minuto o un decennio.
Tutto ciò che rimane catturato nel frame dopo lo scatto è spesso una piccola parte della scena: basta anche pensare alla possibilità di rendere centrali alcuni elementi compositivi invece che altri, che rimangono ai bordi o sono fuori fuoco sullo sfondo.
Il fotografo ha molte possibilità di reinterpretare una scena, e quindi di manipolare il significato dell’immagine prodotta.
Ecco perché una immagine rubata non può essere automaticamente (e sottolineo automaticamente) considerata una forma di reportage documentario.
Anzi, molti ritengono che la candid-camera sia la più grande bugiarda nella famiglia della fotografia, al pari, oggi, di chi usa pesantemente il fotoritocco.
Una immagine rubata, con la sua pretesa di verità e di eccezionalità, può addirittura provocare una inversione della verità, una sorta di accidentale rivelazione che ha il potere grande di nascondere la verità vera: una immagine rubata, solo per il fatto di essere stata rubata, è in grado di “drogare” l’occhio che pensa di assistere ad un fatto certamente più significativo.
Mimic, di Jeff Wall

Guardate la foto a lato: si tratta di Mimic di Jeff Wall (la foto utilizzata recentemente per la pubblicità di un corso di fotografia di strada).

Jeff ha assistito, negli anni ’70, ad una scena di razzismo in strada. Una giovane coppia incrocia un asiatico, e assume una espressione di chiaro e distinto sentimento razzista (notate l’espressione sul viso della donna ed anche il dito medio alzato dell’uomo con la barba). E’ una foto incredibile. Rubata.
Un bel documento, molto forte, soprattutto per quegli anni.
Il gioco di sguardi dei tre soggetti è fantastico. In quel periodo a Vancouver gli immigrati erano spesso oggetto di conflitti sociali a sfondo razzista.Sono state scritte molte pagine su questa immagine.
L’immagine è eccezionale anche perché è stata scattata con una camera medio formato, poco pratica per questo genere di immagini rubate, visto che è piuttosto appariscente.Jeff Wall ha scattato moltissime foto di vita quotidiana: lui era interessato ai “micro gesti”, gesti che sembrano automatici o compulsivi, e che sono allo stesso tempo emblematici circa le varie tensioni all’interno della società.
Foto che sono entrate per questo nella storia.

In realtà Jeff Wall ha realizzato una di quelle che lui chiama “foto cinematografiche“.
Lui ha effettivamente assistito alla scena, ma l’ha memorizzata nella sua mente.
L’ha poi ricostruita in un vero e proprio set, ingaggiando degli attori.

La foto, in sostanza, è figlia di una messa in scena.
Rubata, ma solo con la mente.
E poi rievocata in uno scatto.
Spesso, quando si parla di candid-camera, Mimic è citata come uno degli esempi più rappresentativi (con le dovute specificità).

Fatevi una opinione: questa immagine è una icona nella storia della fotografia, ed è stata esposta nelle più importanti gallerie del mondo. La sua importanza documentale è fuori discussione, ma ho serie difficoltà a considerarla street photography.

Leggo inoltre sul libro di Street Photography Now che Mimic può essere considerato un caso convincente circa il fatto che spesso alcune verità sono raccontate meglio come finzione.
Nick Turpin per IBM
E questo meccanismo (purtroppo) è stato efficacemente adottato dal mondo della pubblicità, che sta contribuendo a confondere ulteriormente le idee alla gente: tutto ciò che sembra (e sottolineo sembra) street photography è sempre più utilizzato per quei prodotti che hanno bisogno di un senso di autenticità urbana: dall’abbigliamento ai telefoni cellulari, dalle automobili alle bibite.
A volte uno streetpher potrebbe girare per giorni in una città per cercare lo scatto utile ad una campagna pubblicitaria: è certo più semplice ingaggiare qualche attore e organizzare una messa in scena (il tempo è denaro!).
Distinguere le vere immagini di strada da quelle false è una impresa ardua.
Qui trovate la campagna pubblicitaria di Nick Turpin per IBM (costruita ad arte); mentre qui trovate la campagna di Matt Stuart per la National Gallery di Londra, che invece conta solo foto autentiche, non progettate, spontanee e spesso rubate.

Questo è quello che dice il grande Garry Winogrand: “Io dico questo: sono abbastanza veloce con una macchina fotografica quando devo esserlo, tuttavia, credo che sia irrilevante. Voglio dire, a cosa serve se ti dicessi che ogni fotografia che ho scattato è una messa in scena? Dalla foto non è possibile dimostrare il contrario. Tu non sai niente dalla fotografia, di come è stato fatto. Ma ogni fotografia potrebbe essere stata realizzata in un set. Se puoi immaginare una cosa, la puoi creare.

Io penso che anche per questo è di grande soddisfazione, quando succede, rendersi conto di aver scattato una foto migliore di quanto non si potesse immaginare.